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Dicembre: Incontro Mensile

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Dicembre 2004


Natale Colombo (Usmate). Quest’anno, nell’iniziativa denominata Tende, abbiamo pensato di devolvere la colletta che raccoglieremo durante la S. Messa ad Avsi. Le Tende sono gesti di carità che, in questo periodo, il Movimento organizza in varie città d’Italia per far conoscere i problemi di alcuni Paesi del terzo mondo.
Il tema della campagna Tende di quest’anno è: “Condizione per lo sviluppo è educazione alla carità”. Cinque progetti a sostegno di opere educative e formazione professionale che dal cuore dell’Africa arrivano al Mediterraneo, inteso come un nuovo mare di dialogo e di scambi tra i popoli e non solo come via di fuga per il mancato sviluppo dell’Africa e del Medio Oriente.
I progetti interessano il Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Giordania, Egitto e Palestina.

Giorgio Macchi (Varese). vi presento il dott. Enrico Guffanti, primario del reparto di chirurgia di Varese. Per me Enrico è stato la persona dell’incontro fatale poiché ha rappresentato la mano di Cristo nel momento più drammatico della mia vita.
L’amicizia con Enrico risale ai tempi in cui frequentavamo entrambi le scuole Medie. Poi le nostre strade si sono divise per la diversità delle scelte. Artefice di un nostro riavvicinamento è stata mia figlia Lidia che aveva deciso di entrare in Gioventù Studentesca di Varese.
Enrico, a quei tempi, era molto vicino ai giovani e trasmetteva loro le radici e la cultura cristiana rendendoli partecipi del suo slancio missionario che si era concretizzato prima in Brasile e poi in Uganda.
Nei giorni dopo la morte di Lidia, Enrico si è dimostrato un grande amico che ha condiviso con noi il nostro dolore e, prendendoci per mano nei momenti più critici, ci ha sostenuto. Ha continuato poi a starci vicino in modo discreto, mai invadente. Sapevamo di avere un amico su cui contare in ogni momento. Attraverso i suoi consigli è stato poi possibile iniziare l’opera Fondazione Lidia in Uganda.

Don Giancarlo. Cantiamo adesso “ Pon tus manos” per il contenuto che richiama quanto Giorgio ha affermato sull’essere stato preso per mano da Enrico.
Anche ciascuno di noi, sul suo cammino, ha trovato una mano che, nel tempo, ha formato una catena di cuori. Durante il canto ripensiamo alla storia di questi anni che è chiamata a dilatarsi per coinvolgere altre persone nel recupero della speranza e della gioia di vivere.

Enrico Guffanti (Varese). Ieri sera mi sono trovato con alcuni amici che, per alcuni anni, hanno lavorato con me come volontari in Uganda o in altre zone dell’Africa. Quando è pervenuta la richiesta di don Giancarlo di venire in mezzo a voi ho accettato. Da ieri sera però, ripensando al mio sì, ho incominciato a sentirmi indegno di parlare davanti a voi.
Le parole di Giorgio sono forse un po’ eccessive ma sono segno di un’amicizia che mi ha permesso di conoscere la vostra realtà e, personalmente, anche alcuni di voi. Mi sento indegno perché a me non è stato chiesto un dolore e un sacrificio così grandi. Mi sento quindi come un bambino chiamato a parlare a degli adulti. Davanti a voi è come se fossi davanti a Gesù in croce. Non si può dire molto. Si può solo stare davanti ad un Mistero che capiremo nel tempo.
Mi ricordo sempre quello che raccontava don Giussani quando, giovane sacerdote, confessò una donna che gli esponeva il dramma della sua vita chiedendogli se era giusto che Dio le chiedesse un tale sacrificio. Don Giussani le suggerì di mettersi davanti al Crocefisso e poi di ritornare da lui. Questa donna capì. Certi fatti non si possono spiegare, si possono solo fare propri, con tutto il dolore che questo comporta.
Vedervi insieme a condividere il pranzo è la prima cosa che mi commuove perché significa che avete avuto l’esigenza di non rimanere da soli. Questa è la prima cosa utile della vita, la prima cosa che costruisce. Il mondo è fatto di gente presuntuosa che ama il potere e ama la violenza; quindi non riconosce di aver bisogno degli altri. A voi è capitato, attraverso il dolore, di capire l’importanza dello stare assieme. Siete un segno per coloro cui, apparentemente, va tutto bene.
Voi, più di altri, potete capire qual è la posizione giusta di fronte al male e alla sofferenza.
Quando avevo ventidue anni sono andato in Brasile per un mese. Al mio rientro, arrivato alla stazione di Varese, c’era uno sciopero di cui non ero a conoscenza. Con me ad aspettare il tram c’era un altro che, come me, non sapeva dello sciopero. Dopo mezz’ora di attesa mi sono ricordato che don Giussani ci diceva sempre che quando si vive una cosa bella bisogna raccontarla a tutti. Mi sono perciò rivolto a questa persona chiedendogli chi fosse. Era un missionario che tornava dall’Uganda dopo venticinque anni. A mia volta gli ho detto che ero studente di medicina ed ero stato in Brasile.
Da quest’incontro casuale è nato il fatto che, tre anni dopo, dieci di noi andassero in Uganda, e, quattro anni dopo, tre si sono stabiliti lì. Da allora, cioè dal 69 ad oggi, si è sempre mantenuta la presenza in quel Paese. Questo non è certamente dovuta ad una mia capacità.
E’ avvenuto un incontro che ha generato tale scelta. Perché una cosa così potesse crescere ed avere significato ha richiesto la vicinanza di amici. Non sono mai rimasto da solo. Con mia moglie siamo stati tra i primi ad andare in Uganda. I miei due figli sono nati lì. Quando andavamo in giro, i bambini dell’Uganda si fermavano per toccare i nostri figli perché erano di carnagione bianca..
Lo stare insieme è molto importante. Alla televisione si parla continuamente del dramma del mondo, delle sue tragedie e della voglia di fare. Il vero problema è che il male del mondo e il bisogno del mondo mi toccano e m’interessano come mi tocca e mi interessa un fatto personale. Se non fosse così sarebbe una presa in giro.
Sono stato quattro anni in Uganda. Ultimamente vi sono ritornato una decina di giorni per incontrare gli amici e le realtà che lì sono nate, tra cui la Fondazione Lidia. Sono ritornato anche nella zona in cui lavoravo, al confine con il Sud Sudan. Ci sono solo alcune grosse città. I piccoli villaggi sono stati bruciati e gli abitanti sono oggi radunati nei campi per sfollati formati da piccole capanne, vicinissime le une alle altre. Attorno all’ospedale dove lavoravo sono raggruppate quattordicimila persone, quattro pompe per l’acqua e tre gabinetti.
Tra le sette e le nove della sera, entrano in ospedale quattromilacinquecento persone. I bambini, tutte le sere, entrano nel giardino dell’ospedale e si stendono uno accanto all’altro, con qualsiasi tempo ed escono la mattina. Questo per proteggersi dai guerriglieri che entrano nei villaggi, rapiscono i bambini e li addestrano alla guerriglia. Negli ultimi quindici anni i guerriglieri hanno rapito ventimila bambini e bambini dai dieci ai quindici anni. Ho incontrato alcuni diciottenni cui i guerriglieri hanno tagliato orecchie, mani e bocca perché avevano fatto la spia. E’ una tragedia umana che credo sia la più grave del presente storico.
Di fronte a ciò le reazioni sono di due tipi: o si dice che, nonostante l’impegno finanziario, la situazione è comunque peggiorata oppure ci si chiede se sia peggiorato il mondo. Il problema non è che la situazione del mondo è peggiorata ma è che a noi personalmente è chiesto di mettere dentro al mondo un segno di positività, un segno di luce.
Io, nei campi profughi, ho incontrato gente africana che, per l’amicizia con noi, si è presa cura di questa gente ed è diventata un punto di sollievo, di sviluppo e di nuovo inizio che, altrimenti, non ci sarebbe stato.
Quando sono stato per la prima volta in Africa, l’Uganda si chiamava “la perla dell’Africa”, una terra molto bella. La prima settimana ho assistito ad un episodio di lapidazione di un uomo che aveva rubato una bicicletta. Nella perla dell’Africa avvenivano questi episodi. Il governo inglese aveva lasciato l’Uganda da sei anni. La mentalità della popolazione era rimasta su questi livelli. Adesso ci sono problemi di altro genere. In un mondo così, ciò che ci è richiesto è la possibilità che ognuno possa vedere il positivo.
Nei vari Paesi dove ci fermiamo, non solo in Uganda, viene proposta un’educazione. La condizione perché una persona diventi grande, felice e veda una speranza, è che qualcuno le faccia compagnia, le insegni non solo un mestiere ma anche il senso della vita. Questo insegnamento non può venire dagli aiuti monetari ma da chi sta loro vicino. Per questo Avsi, in territori particolarmente critici, propone alcune iniziative che hanno a cuore le esigenze della formazione e dell’educazione.
Attraverso l’educazione l’uomo capisce di far parte di un popolo e di avere un compito nella vita. Questo non lo si capisce perché gli viene insegnato a lavorare, a far di calcolo o a costruire le case. Dentro un mestiere noi cerchiamo di educarli a una posizione umana ricca di significato ideale per loro e per il popolo cui appartengono. Avsi chiede un aiuto perché, anche attraverso voi, si possano sostenere iniziative di tipo educativo-professionale che diventano possibili grazie a persone impegnate sul posto.
La globalizzazione è anche la globalizzazione del male. Il male è qualcosa che sta innanzitutto dentro ciascuno di noi. Si vince il male aiutandosi reciprocamente e guardando nella direzione del vero. Nella mia vita ha voluto dire stare con degli amici e guardare a Gesù. Il positivo, però, non deriva dal mettersi insieme ma nel seguire Cristo. C’è chi non crede. E’ un fatto, però, che alcuni che credono costruiscono momenti e luoghi di luce e di positività per tutti.
Chi ha costruito le opere in Uganda non ha mai pensato di poter salvare il mondo. Le ha fatte perché ha incontrato qualcuno che lo ha aiutato e, insieme, hanno fatto il resto. Giorgio vi ha raccontato della nostra amicizia sin da bambini. Io ricordo che, il mese di febbraio, dopo la morte di Lidia, siamo andati a sciare in Trentino. Lungo una discesa ha riso per qualcosa che avevo detto. allora Giorgio si è fermato e mi ha confidato che non avrebbe mai pensato di poter di nuovo ridere. Mi sono sentito raggelare. Stando insieme, facendosi compagnia, le cose e la vita cambiano. Voi me lo insegnate e per questo vi ringrazio.

Natale Colombo (Usmate). A me capita spesso di provare disagio quando mi è chiesto di raccontare l’esperienza che vivo. Quello che ho sentito oggi mi è di aiuto e di stimolo. Credo che da questo possiamo imparare ad essere più missionari. Oggi siamo invitati a compiere un gesto di carità.

Enrico Guffanti (Varese). Nel film La Passione c’è la scena di Gesù che cade sotto la Croce sulla via per il Calvario. Il regista sposta lo sguardo su Maria che corre incontro a Gesù bambino per sollevarlo dopo una caduta. Quando Gesù cade sotto la croce, guarda Maria e le dice: “Io faccio nuove tutte le cose”.
Le cose sono nuove per il modo nel quale le si guarda. Se un figlio è morto, questa è la realtà. E’ il modo di guardare a questo fatto che porta alla novità, alla verità. Il dolore non è tolto. Nella vita entra però la certezza inattaccabile di Cristo che muore in croce per tutti gli uomini. Se uno non crede, stia vicino, segua chi crede; sarà aiutato. Anche lui, forse, arriverà a far propria questa certezza.

Don Giancarlo. In questi giorni, incontrando una mamma, le ho chiesto come stava. Mi ha confidato di riuscire ad accettare la morte del figlio perché era stata confortata da sogni e da comunicazioni sue. Secondo me, questa strada favorisce una compensazione affettiva che non può risultare risolutiva. Il giorno in cui tali “contatti” cesseranno ella rischierà di ricadere nello sconforto.
Bisogna partire da Cristo che ha fatto nuove tutte le cose e da quelli che portano dentro di loro tale certezza. Per questo, come ha detto Natale, possiamo essere, senza presunzione, missionari di una positività di cui la nostra vita si è arricchita.

Maria Bencaster (Milano). Quello che mi è successo, ha sconvolto la vita e ha fatto cambiare radicalmente il mio modo di pensare. Ho comunque assunto un atteggiamento diverso da mio marito ed ho avuto la fortuna di conoscere don Giancarlo. Così dalla disperazione più profonda, siamo passati alla rassegnazione e poi a vedere il mondo in modo diverso. Ho capito quali sono per me le persone giuste da incontrare e sento il desiderio di incontrarle.
Con voi che mi avete dato un grande aiuto, mi sono subito sentita a mio agio. Ad un certo punto però, anche se venivo accompagnata da qualche amica, mi sentivo sola perché mio marito aveva assunto un atteggiamento di isolamento nel lavoro e nello studio.
Col passare del tempo, vedendomi tornare dai nostri incontri contenta, ha deciso di parteciparvi. Si è sentito aiutato e, oggi, infatti, siamo qui insieme.

Matteo La Pescara (Busto A.). Da Enrico ho sentito parlare dell’impegno nell’educare i giovani. Vedo i nostri giovani che, dopo il diploma, iniziano il lavoro e non si occupano di altro. Mi chiedo se, anche per i giovani africani, accade la stessa cosa.

Enrico Guffanti (Varese). Senza una compagnia, un educatore, senza qualcuno che svolga un compito educativo i giovani non si dedicano ad alcun interesse. Se non si è educati a guardare alle cose in un certo modo, l’attenzione è rivolta solo a se stessi. I capi africani, infatti, hanno arricchito le loro tribù e le loro famiglie, molto di più di quanto non abbiano fatto i colonialisti.
Per questo le proposte di quest’anno mirano a dare una formazione tecnica attraverso persone capaci di educare e di renderli responsabili di loro stessi e della loro gente.

Giorgio Macchi (Varese). Nell’87 Enrico, con gli amici ugandesi, ci propose, attraverso la Fondazione Lidia Macchi, di fare una biblioteca. Con tutti i problemi dell’Africa mi sembrava un controsenso voler aprire una biblioteca. Mi è stato necessario parecchio tempo per capire la validità della proposta.
Quando siamo andati in Brasile abbiamo potuto constatare l’effetto positivo dell’importanza data alla cultura e all’educazione. Un popolo impiega decenni per modificare i propri modelli di vita. Alcune persone non cambieranno mai. Occorre iniziare dai più giovani a proporre un modello di educazione. L’alternativa all’educazione è quello che ci ha raccontato Enrico: i guerriglieri rapiscono un bambino e lo abituano ad uccidere senza permettergli di prepararsi a l suo vero futuro.
I nostri giovani, appena terminate le scuole, seguono la cultura dominante e pochi si impegnano nel volontariato. Quando manca la compagnia che educa si cerca la strada più facile e semplice.
Vorrei anche ricordare alcuni amici che ci hanno scritto o che stanno vivendo un periodo delicato della loro esistenza perché ammalati o in attesa di operazioni chirurgiche. Una nostra amica di Molina di Fiemme che manda un caro saluto a tutti e dice: “Abbiamo ricevuto finalmente i vostri scritti.Ci mancavano. E’ vero, ognuno di noi ha un cammino e dei tempi diversi per affrontare il dolore. Però l’importante è non essere soli e non chiudersi in se stessi ma condividere con chi ha provato lo stesso dolore. Solo così ci si può aiutare a ritrovare la fede e la speranza e ritrovare i nostri figli accanto a no, come dice Marcello.”
Nella settimana bianca dello scorso inverno, a Fiemme, abbiamo incontrato quindici famiglie che ci hanno accolto con semplicità. Da quell’incontro hanno iniziato a ritrovarsi regolarmente e a condividere insieme il dolore.
Un altro saluto arriva da Angelo Mandorlo di Rimini che ci ha dato un grosso aiuto al Meeting di Rimini. Flavio, marito di Enrica, purtroppo ha avuto un peggioramento di salute. E’ ricoverato nuovamente in ospedale a Bologna.
La nostra amica Nicoletta, giovedì o venerdì, subirà un intervento chirurgico al cuore.

Don Giancarlo. A nome di tutti ho scritto a Nicoletta un biglietto di augurio e di incoraggiamento dicendole che le siamo vicini e non la dimenticheremo nella preghiera. Mentre eravamo a tavola ci ha telefonato. Le ho assicurato che, oggi, l’avremmo ricordata nella S. Messa.

OMELIA

La pagina del Vangelo che abbiamo appena ascoltato ci mette di fronte a Giovanni Battista, il cugino di Gesù che, probabilmente era cresciuto insieme a lui. Sui trent’anni all’incirca hanno fatto scelte vocazionali diverse.
Il Battista ha privilegiato la scelta eremitica in una zona attigua al fiume Giordano. Attorno a lui brillava una luminosità che non smette mai di splendere dove si radica o si rinnova quello che lui era e quello che viveva: la tensione e l’amore al Mistero riconosciuto come origine e destino del vivere.
Chi fa questa scelta e la vive rivoluziona tutto. Il “faccio nuove tutte le cose”di Gesù è stato vero per il Battista come lo è per noi. Cambiando vita è diventato polo di attrazione. Convergevano a lui da tutte le parti della Giudea. Ciascuno gli sottoponeva i suoi problemi e lui, uomo di Dio e voce che grida nel deserto, dava risposte adeguate alle situazioni personali e consigli pertinenti ai singoli casi. Alcuni si allontanavano già cambiati, altri ritornavano per avere chiarezza e sostegno nel vivere l’attesa del Messia.
Ciò che muove tenacemente l’uomo è sempre la ragione ideale. Non che le altre ragioni non siano valide. Basti pensare alla ragione professionale, a quella sentimentale ed affettiva per chi è innamorato, a quella educativa per chi è genitore o anche a quella hobbistica per chi ha degli interessi. Quando però subentrano bufere o gravi rovesci, le ragioni particolari vanno in crisi e lasciano distrutti. Nei vostri casi non c’è più voglia di lavorare, di incontrare persone e di divertirsi. Si riprende a farlo solo dopo avere ricuperato la ragione ideale.
Gesù aveva iniziato la sua scelta vocazionale facendo il predicatore ambulante. Il Vangelo odierno coglie Giovanni Battista in Galilea. E’ ormai imminente la sua fine, sarà decapitato, ma percepisce che è altrettanto imminente l’accadimento di qualche cosa per la quale egli aveva messo a disposizione tutto se stesso. Era diventato la voce che grida nel deserto. Non è, però, sicuro, si trova nel dubbio. Normalmente, in questi casi, si lascia perdere tutto, si rimanda nel tempo, non si affronta l’ostacolo. Si diventa spesso persone in fuga. Così inizia il disastro umano, il disastro ideale, etico, relazionale, affettivo. E’ come un tramonto che anticipa il buio della notte.
Giovanni non reagisce così. Aveva attorno a sé la compagnia dei discepoli che incarica per essere aiutato a risolvere il suo dubbio circa l’identificazione del Messia in Gesù.
Giovanni ci insegna che nel momento dello smarrimento e del dubbio si può non retrocedere. Gesù lo valorizza: “tra i nati di donna non ne è sorto uno più grande di lui”.
Quando si è in difficoltà occorre chiedere aiuto, non a chicchessia ma a chi vive delle certezze ed è capace di risposte. Le certezze muovono la vita e suggeriscono la strada da percorrere perché, se Dio lo vuole, la soluzione dei problemi sia raggiunta. Se Dio non vuole, la croce continui ad essere portata con la dignità di chi non si sente abbandonato o castigato ma associato a Lui nella redenzione dell’umanità.
Gesù risponde: “Andate a dire a Giovanni che i ciechi vedono, gli storpi camminano, i malati guariscono, i sordi odono, i morti risorgono, i poveri ricuperano speranza”. E’ possibile cambiare, anzi, il cambiamento è in atto anche per noi. E’ il punto di partenza e non di arrivo. Tutti sperano che la loro fede si incrementi. E’ importante che essa sia abbracciata come l’ipotesi attraverso cui leggere, giudicare e accettare la realtà.
“Tra i nati di donna non ne è sorto uno più grande del Battista. Tuttavia il più piccolo del regno dei cieli è più grande di lui”. Il più piccolo di quelli che vivono il rapporto con Cristo è più grande del grandissimo Giovanni Battista. Lui non ha fatto l’incontro, l’ha atteso, l’ha annunciato. Noi l’abbiamo fatto.
Isaia dice: ”Coraggio, non temete, ecco il vostro Dio. Lui viene a salvarvi”. Può comunicare questo chi ha fatto l’incontro e chi tale cambiamento l’ ha in corso come nuovo sguardo sulla realtà, come accettazione di sé o come affezione a qualcuno che ne è stato lo strumento. Chi cambia rinnova qualcosa attorno a sé. Sentiamoci in comunione con i figli, gli amici, le mogli e i mariti, che Dio ha chiesto per sé. Ricordiamoci che non è un padre possessivo ed egocentrico. Se ha preso qualcuno per sé lo ha fatto per rinnovarlo. Occorre saper attendere con pazienza. L’Avvento ritorna annualmente per ricordarci che l’attesa del non ancora è una delle dimensioni costitutive dell’umano.
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